Questo post è in gestazione da un po’… è difficile parlare di questi “temoni” dal dietro le quinte di un piccolo maglificio di provincia. Con quale autorità? E soprattutto c’è coerenza tra quello che si dice e quello che realmente si fa? C’è un “perché” a muovere questa piccola realtà imprenditoriale che è Tricot Harden che vada oltre il profitto, il ritorno economico?
Ho digitato “Made in Italy” sul browser e uno dei primi risultati è quello di Vogue Italia con un articolo di marzo 2019 che potete leggere integralmente cliccando questo link. L’articolo di Marco Magalini affronta il tema della nuova generazione italiana di moda e lo fa snocciolando quelle che secondo lui sono le 5 le regole chiave per dare vita a un percorso imprenditoriale di successo nella moda.
In Italia siamo pieni di piccole realtà produttive, che sono delle eccellenze locali magari maturate in centinaia di anni… Possiamo chiamarlo “Genius Loci” ovvero spirito del luogo.
Riassumendo, a caratterizzare le nuove generazioni della moda italiana sono questi tratti distintivi:
1. Identità del brand
2. Personalità
3. Sostenibilità
4. Località
5. Italianità
Vorrei soffermarmi, oltre che sulla parola italianità, o quella ancor più pregnante di località, sulla voce sostenibilità. Abusata forse e quanto mai di “moda”, appunto, che cosa implica la sostenibilità e cosa c’entra con il Made in Italy?
Per Tricot Harden la parola ha a che fare con la rinuncia a delocalizzare la produzione in regioni asiatiche dove la forza lavoro ha un costo irrisorio, molto competitivo, nonostante le migliaia di chilometri di trasporto delle merci.
Perché rinunciare ad introiti maggiori allora?
– Perché esportare il “saper fare” delle nostre operaie non è un’impresa da poco (v. genius loci)
– Per un attaccamento fisico, forse un tantino sentimentale, all’azienda di famiglia.
– Perché nel nostro piccolo crediamo in valori etici ed ambientali e pensiamo che anche un “piccolo” possa fare la differenza.
Aziende molto più grandi della nostra credono e hanno sempre creduto (non solo perché ora è di tendenza) nella sostenibilità. Negli anni ’90 la londinese Katharine Hamnett, è diventata famosa per le t-shirt con slogan a sfondo politico, etico o ecologico. Sul blog di Marina “Morgatta” Savarese, autrice tra l’altro di Sfashion, La Moda come non te l’hanno mai raccontata (Morellini Editore, 2016), si legge a proposito della stilista:
“Dopo aver appreso dell’avvelenamento da pesticidi nelle regioni produttrici di cotone e della scarsa tutela della manodopera in gran parte dell’industria tessile, Katharine iniziò a fare pressioni per importanti cambiamenti nel modo in cui l’industria operava. Delusa dai risultati interruppe la maggior parte dei suoi accordi di licenza e dal 2005 ha rilanciato la sua collezione seguendo linee guida etiche più rigorose.”
– Fare vestiti eticamente e nel modo più ecologico possibile, preservando le abilità tradizionali.
– Ridurre le emissioni di carbonio producendo nell’UE, dove si trova la percentuale più elevata della nostra base di clienti.
– Utilizzo di materie prime sostenibili.
– Qualità e stile durevoli.
Dal sito di Katharine Hamnett – Manifesto della Sostenibilità
Temi caldi insomma, che sposano però il nostro modo di intendere il lavoro di piccoli produttori di maglieria italiana. Temi cari anche ai nostri clienti quindi, che scegliendo noi scelgono la qualità. Anche la qualità che ha un prezzo.
Sempre Marina Savarese:
“Non si sta pagando solo la sostenibilità (che tra un po’ non pagheremo più perché diventerà una componente base), si sta pagando l’idea, il design, i materiali preziosi, i processi innovativi, gli stipendi decenti ai lavoratori (che non sono sfruttati) o l’artigianalità. Si sta pagando il valore di quell’oggetto, che è il frutto di moltissimi fattori. A questo bisogna pensare prima di etichettare come “caro” un capo originale e frutto di una ricerca vera.”
“Made in Italy” allora non solo come slogan fine a se stesso, ma come contenitore di valori, di saper fare e di coscienza etica e ambientale!